Kme, Pinassi: “Dobbiamo tornare ad essere competitivi perché il rame non ce lo compra l’azionista”
sabato, 25 marzo 2017, 11:37
di andrea cosimini
E’ stato Vincenzo Manes a richiamarlo in Kme. Dopo averle provate tutte, dalla possibile joint venture con il gruppo Eredi Gnutti Metalli di Brescia alla ben più improbabile riconversione dello stabilimento di Fornaci di Barga in un impianto per la coltivazione idroponica, alla fine l’azienda, pur di salvaguardare i posti di lavoro, ha deciso di puntare su di lui per un rilancio dello stabilimento nel settore che gli è più congeniale: quello del rame. Claudio Pinassi, 54 anni, è un manager toscano cresciuto proprio tra le fila della Kme dove ha mosso i suoi primi passi come capo reparto del settore laminati. A lui è stato affidato l’incarico di amministratore delegato di Kme con il chiaro obiettivo di riportare ad una redditività positiva l’azienda senza ricorrere per forza alla strada dei licenziamenti.
Claudio Pinassi, amministratore delegato di Kme Italy. Qualcuno ha esultato per il suo arrivo: dopo anni di grandi manager finanziari ed economici, finalmente un manager esperto del settore…
“La scelta di avere me come amministratore delegato è un chiaro segnale che l’azienda vuole rilanciare l’attività industriale caratteristica di questo stabilimento. Se fossero andati in porto progetti di riconversione, la mia figura non avrebbe avuto senso”.
Il suo, in realtà, è un ritorno in Kme. Come ha trovato cambiata l’azienda rispetto a quando l’aveva lasciata?
“Sono entrato, da neolaureato, nell’allora Europa Metalli nel 1991; ho ricoperto l’incarico di caporeparto nel settore laminati a Campo Tizzoro e poi ai Superconduttori qui a Fornaci. Devo dire che ho trovato un’azienda meno cambiata di quanto si potrebbe pensare in termini di cultura industriale”.
Prima lei, poi il nuovo direttore di stabilimento, Michele Manfredi, anch’egli ex di turno, anch’egli bene accolto dai lavoratori perché competente nel settore. C’è stato, per caso, un cambio di rotta a livello dirigenziale?
“La vocazione dell’azienda non è mai venuta meno. C’è stata semmai una discussione sulla continuità dello stabilimento perché perdeva molti soldi. Invece di scegliere la via più facile, quella dei licenziamenti, l’azienda si è preoccupata di preservare l’occupazione”.
Da qui le varie ipotesi di rilancio. Come, ad esempio, la possibile joint venture con Eredi Gnutti Metalli di cui lei era amministratore delegato proprio al momento della trattativa con Kme. Cos’è andato storto?
“Niente. Semplicemente, quando ci si sposa, bisogna essere in due a volerlo. A me sarebbe piaciuto fare questa joint venture ma bisogna anche capire che ogni azienda ha dietro di sé il suo azionariato con i propri, legittimi, convincimenti. Ritengo comunque che, in un mercato in contrazione, le operazioni di consolidamento siano sempre opportune. I motivi per fare consolidamenti, a prescindere dai nomi, ci sono ma dobbiamo anche capire che non è la normalità farlo, soprattutto in Italia”.
Quindi non è tramontata del tutto l’ipotesi di una possibile joint venture con altre aziende del settore?
“, A prescindere sempre dai nomi, credo che l’opportunità di effettuare consolidamenti sia sempre da valutare con interesse. Sarebbe negativo per le aziende non porsi continuamente il problema. Oggi, ci piaccia o no, le aziende sono quasi obbligate a consolidarsi perché il mercato di riferimento non è più quello locale. E’ un mercato enorme, con una forte sovra-capacità produttiva, e una concorrenza sempre più competitiva. Chi agisce in sinergia sopravvive. Chi non lo fa, in prospettiva, risulterà sempre meno competitivo”.
Come è avvenuto il suo passaggio da Eredi Gnutti Metalli a Kme?
“Semplicemente, gli azionisti mi conoscevano e, quando hanno saputo che ero uscito da Eredi Gnutti Metalli, mi hanno chiesto di venire alla Kme per rilanciare l’azienda. Anche senza joint venture”.
A un certo punto si è profilata l’ipotesi di riconvertire lo stabilimento in un impianto di coltivazione idroponica. Secondo lei era davvero un’ipotesi fattibile?
“L’idea è nata dal fatto che c’erano troppi stabilimenti nel Gruppo e quindi alcuni andavano chiusi. Non si voleva chiudere però, perché si voleva assolutamente tutelare l’occupazione. Così si è pensato a come riconvertirlo. Facile sminuire ora il progetto dell’idroponica. Io nemmeno ero all’interno dell’azienda, al tempo, quindi non devo difendere nessun progetto. Però devo dire che faceva parte tutto di uno sforzo continuo nel ricercare tutte le soluzioni possibili per ridurre il disagio sociale. L’ipotesi dell’idroponica è stata abbandonata perché i costi risultavano insostenibili. Mi è stato quindi chiesto se era possibile rilanciare l’azienda per quella che è la sua vocazione storica. E io ho detto sì”.
Si parla sempre del rame come dell'”oro rosso”. Da quanto ci pare di capire, però, si tratta di un mercato in crisi…
“C’è stata una pesantissima crisi negli ultimi anni soprattutto nel settore dell’edilizia. In passato la domanda era maggiore dell’offerta, oggi le proporzioni sono invertite. I motivi sono la crisi ma anche l’evoluzione tecnologica per cui il peso di ogni pezzo si alleggerisce sempre di più. Un’azienda, in un mercato così mutato, deve cercare di resistere cercando un proprio equilibrio economico. A Fornaci era impossibile farlo con gli stessi impianti e la stessa forza lavoro di un tempo. Il problema è stato esposto con la massima trasparenza e i lavoratori, i sindacati e i politici locali lo hanno capito”.
Come riportare quindi la materia prima all’interno dello stabilimento?
“Il rame è una materia prima costosa che ha subito un’impennata notevole negli ultimi anni. Per di più, non è facile lavorare con una materia così volatile sul mercato con oscillazioni di valore fortissime. Non possiamo però pensare che sia l’azionista a comprarci la materia prima. Deve essere l’azienda, con la propria efficienza, a fare risultati affinché si produca, si venda e si generi reddito. Solo così avrà la forza di approvvigionarsi e crescere. Abbiamo forze e competenze per farcela. Abbiamo impianti, capacità e competenze. Bisogna però rapportarci con il mercato e la concorrenza. Dobbiamo fare bene tutto il possibile”.
Perché l’Italia fatica a competere con la Germania in questo settore?
“Il vero problema è che, in Italia, noi soffriamo la concorrenza tedesca anche perché in Germania il costo dell’energia elettrica, per aziende di questo tipo, è significativamente inferiore (circa 2 milioni di Euro all’anno per uno stabilimento come Fornaci di Barga). Finché da noi rimarranno inalterate queste normative, non competitive con il resto d’Europa, per noi sarà difficile concorrere sul mercato. Il problema però lo abbiamo fatto ben presente ai politici locali e nazionali e confidiamo che venga risolto al più presto”.
A proposito di costi, ci viene in mente il forno Asarco su cui, inizialmente, erano concentrate tutte le speranze dei lavoratori…
“C’è stata una forte discussione sul mantenimento del forno Asarco. Un forno che conosco bene fin dal 1991 era uno dei più importanti all’interno del Gruppo. Ma era un forno destinato a lavorare pochi giorni l’anno. Da qui la scelta di fermarlo. In questa situazione di mercato, infatti, un impianto così inutilmente grande e costoso avrebbe affossato lo stabilimento”.
Oggi, le stesse speranze, sembrano aggrappate al forno Loma 1…
“Si tratta di un forno ad induzione, invece che a gas, che vanta una tecnologia consolidata. E’ un forno che avrà una capacità produttiva di circa 300 giorni all’anno e coerente, quindi, con le attuali esigenze di mercato. Un forno che prima produceva zinco e che ora è stato riconvertito alla produzione di rame con una capacità di fusione che renderà autonomo lo stabilimento”.
Che risultati sta dando, al momento, questo forno?
“Questi primi mesi ci stanno confortando. E’ stata ripresa la produzione all’interno dello stabilimento e già si hanno le prime buone indicazioni. Si tratta comunque di un piano triennale quindi vedremo in seguito i risultati definitivi. La qualità del prodotto è elevata e la produttività è in linea con le esigenze dello stabilimento”.
Quali sono, a questo punto, gli imminenti obiettivi?
“Entro l’autunno 2017 vogliamo che il Loma 1 raggiunga la sua massima capacità fusoria perché puntiamo a competere ad armi pari con la concorrenza. Sempre entro il 2017 vogliamo raggiungere la totale autonomia produttiva ed entro il 2018 centrare il riposizionamento sul mercato.”.
L’incidente del 25 dicembre, così come altri incidenti che si sono verificati negli anni precedenti, hanno messo in luce il problema della manutenzione dei macchinari e della messa in sicurezza. Come siamo messi oggi? Sono previsti interventi?
“Si è trattato, in realtà, di un incidente normalissimo. Un refrattario di un induttore ha subito una crepa e da lì è fuoriuscito il rame che, a contatto con l’acqua, ha generato un forte scoppio. Non sarebbe successo se ci fosse stato qualcuno in quel momento. Il forno era in stato di mantenimento e non stava lavorando. Devo dire, invece, che lo stabilimento è messo molto bene da un punto di vista di macchinari. Gli investimenti sono stati addirittura eccessivi negli anni passati. Ma la qualità del nostro prodotto è ottima e se ne ha conferma sul mercato. Gli impianti sono buoni e la manutenzione rimane una priorità.”.
Al momento del suo arrivo, pubblicammo un articolo intitolato “La cura Pinassi” in riferimento alla sua volontà di rilanciare lo stabilimento di Fornaci di Barga. Ci svela i segreti di questa “cura”?
“Semplicemente cerco soluzioni possibili per riportare l’azienda in pareggio di bilancio entro il 2017, dopo anni di perdite per decine di milioni di Euro e ritrovare nel 2018 una redditività positiva Questo, ovviamente, non permetterà di accontentare tutti. Richiederà gli sforzi da parte di tutti: gli azionisti continueranno a supportare l’azienda anche in assenza di dividendi e i dipendenti e i loro rappresentanti dovranno proseguire a sostenere la ristrutturazione con il senso di responsabilità dimostrato finora”.
A proposito di esuberi. Cosa succederà nel settembre 2018, data di scadenza dell’accordo del 22 giugno?
“L’obiettivo sarà quello di rilanciare finalmente lo stabilimento e riportarlo in equilibrio economico minimizzando, o azzerando se possibile, gli esuberi entro il 2018. Ovviamente, tutto questo dipenderà anche dal quadro normativo, dalle condizioni di mercato e dal settore che sta vivendo una pesante crisi”.
Come ricollocare, nel frattempo, i lavoratori a rischio? Sappiamo che sono stati fatti colloqui e che alcuni lavoratori sono stati mandati sulla montagna pistoiese, nel cosiddetto progetto “social valley” di Campo Tizzoro, per riqualificarsi come receptionist, manutentori delle aree verdi, guardie parco, addirittura operatori in aziende agricole. Ci spiega come può un lavoratore che ha lavorato il rame tutta la vita riscoprirsi, all’improvviso, un agricoltore?
“Tutto questo si inquadra in un progetto volto a raggiungere tre obiettivi: primo, come già detto, il pareggio di bilancio; secondo, il non licenziamento forzato dei dipendenti; terzo, il fare fronte ad un numero di dipendenti che eccede di moltissimo le necessità. La soluzione più semplice, e più drastica, sarebbe quella di tagliare il personale. Noi però non abbiamo voluto percorrere questa strada. Manteniamo, almeno fino a settembre 2018, tutti gli occupati. Formiamo i dipendenti su altri lavori perché questo consenta ad essi di operare in altri settori. Comunque, al termine del progetto, non ci sarà nessuna disparità di trattamento rispetto agli altri lavoratori dell’azienda”.
Credo che due paroline, in conclusione, siano da spendere sulla questione LIME Italy spa. Questo ramo della Kme, ceduto circa un anno fa, è giunto ormai al capolinea. I lavoratori hanno alzato bandiera bianca, chiedendo addirittura di essere licenziati, perché non avevano più speranza nel loro futuro. Il magazzino di Fornaci pare non sia mai partito nonostante la presenza di macchinari. E i lavoratori indietro addirittura con le mensilità. Cos’è andato storto?
“Premesso che non è una società del Gruppo ed io non me ne sono mai occupato, penso sia un discorso di competitività: riuscire a fare le cose con i costi giusti.. Credo si sia trattato di un problema prestazionale. Lime non faceva parte delle attività metallurgiche caratteristiche per cui è specializzata l’azienda e per questo è stata ceduta. Noi dobbiamo invece focalizzarci sul nostro core business che è la metallurgia del rame e delle sue leghe. Le altre attività le stiamo piano piano cedendo per rendere l’azienda più snella ed efficiente”.
Andrea Cosimini